Signor Presidente, anche il nostro Gruppo, da tutt'altro punto di osservazione e militanza politica, si unisce con commozione alle parole dei colleghi che mi hanno preceduto. Questa mattina, appresa la notizia della scomparsa di Alfredo Reichlin, mi sono domandato come e quanto Alfredo Reichlin appartenga alla storia d'Italia e come e quanto alla storia della sinistra. Debbo dire che, pur non militando a sinistra, propendo per pensare che Alfredo Reichlin appartenga alla storia d'Italia.
Alfredo Reichlin è stato soprattutto uno straordinario giornalista: certo, un giornalismo tutto iscritto nella vicenda del comunismo, prima, e del Partito Democratico, poi. Ricordo alcuni suoi bei libri: il primo, di circa vent'anni fa mi pare si chiamasse «Il silenzio dei comunisti», edito da Einaudi. Ne erano autori, insieme a lui, due grandi personalità che non ci sono più: una è una donna, Miriam Mafai, grande giornalista e comunista anch'essa, l'altro era Vittorio Foa, che aveva forse in comune con Alfredo Reichlin una certa simpatia e una certa apertura ad un mondo che era stato azionista. Filoazionista molto spesso aperto e disponibile all'azionismo, appunto, ma non al liberalismo. Del resto, molto opportunamente, il collega Zanda ricordava il suo rapporto con Cuccia, ed io potrei aggiungere il suo rapporto con Scalfari e con Berlinguer, il suo guardare con qualche interesse e passione al capitalismo, ma sempre chiuso al liberalismo.
Stamattina, ricordandolo sul «Corriere della Sera», Paolo Franchi evoca con orgoglio un proprio articolo giovanile consegnato nei primi anni Settanta all'allora direttore di «Rinascita», Reichlin, che negli anni Settanta appariva - e non solo perché dirigeva «Rinascita» - e appare ancora oggi a Franchi uno dei grandi del comunismo, uno dei togliattiani veri. Nel giornalismo comunista, Alfredo Reichlin aveva vissuto la tragedia e l'umiliazione di essere allontanato dalla direzione dell'«Unità» quando Togliatti era ancora vivo, nel 1963, quando forse Reichlin aveva esagerato nell'ingraismo e si era sentito sballottato da quella competizione che si annunciava tra ingraiani e amendoliani. L'umiliazione fu che al suo posto, nel 1963, direttore dell'«Unità» era diventato Mario Alicata, uno dei ferri di lancia della componente amendoliana.
Del resto forse fu per questo che Reichlin non se la sentì, nel periodo 1968-1969 di seguire i suoi seguaci di sempre, il suo amico Pintor, la sua compagna di molti anni di vita, Luciana Castellina, nell'avventura del «Manifesto». Scelse di restare nella vecchia casa togliattiana, di restare al fianco (e di esserne ancora valorizzato) da Berlinguer. Negli ultimi tempi era molto amaro. Non tocca a me, perché sarebbe di cattivo gusto, evocare quanto male gli avesse fatto la deriva scissionistica. Ricordo però il suo ultimo articolo, che dovrebbe essere testamentario, intitolato «Non lasciamo la sinistra sotto le macerie». Anche chi non è di sinistra, ma è affezionato alla storia d'Italia, ritiene che la storia d'Italia - sia per chi proveniva dal comunismo, sia per chi proveniva dal più scombiccherato anticomunismo - è una storia di parlamentarismo. Abbiamo fatto male, giovedì scorso, ad indulgere a qualche aspetto di antiparlamentarismo più o meno dannunziano. Proprio per il rispetto che dobbiamo a questo ultimo ammonimento di un uomo come Reichlin (non lasciamo la sinistra sotto le macerie), credo che il parlamentarismo debba sempre essere un nostro punto di riferimento. Sulla base di questi sentimenti, signor Presidente, ci uniamo al dolore dei suoi cari e dell'Assemblea. (Applausi dai Gruppi CoR, PD e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE).
